Che tipologia di stampa predilige?

Devo fare una distinzione del tutto personale: per esporre le mie foto scelgo stampe di dimensioni medio-grandi, diciamo dal metro quadro in su. Per questo tipo di produzioni scelgo stampe fine art su carta Hahnemühle – in particolare la Photo Rag ultra smooth – montata su dibond. Tridimensionalmente “al vivo”: senza bordi per “incastrarsi” nelle pareti che le ospiteranno e, se le condizioni di esposizione lo permettono, senza elemento frontale che ne protegga la superficie. La resa è semplicemente eccezionale: mi piace la superficie leggermente pastosa di questo tipo di tecnica che incarna perfettamente l’effetto sognante e deciso che cerco per le mie foto sia a colori che in bianco e nero.

In alternativa consiglio anche le stampe su alluminio Lux-art sia in finitura opaca che in quella lucida che hanno una qualità altissima, una tridimensionalità impressionante e con i distanziatori sono perfette per l’esposizione in casa o in un ambiente di lavoro.

Sono rimasto colpito dalla resa finale della stampa su tela pittorica delle riproduzioni di alcuni quadri di una chiesa che – dovendo essere mandati in restauro per molto tempo – sono stati riprodotti e riposizionati in situ in formato 1:1.
Poi, ogni tanto, produco ancora delle stampe analogiche home made ma giusto perché mi diverte provare procedimenti strani.

 

Prima l’idea o la fascinazione per il materiale? 

Il materiale viene sempre dopo l’idea iniziale, la pre-visualizzazione del risultato finale: quando scatti hai già in mente come dovrà essere l’effetto finale, soprattutto se si tratta di un lavoro su commissione.

Ma talvolta è il materiale che “chiama” e spinge a produrre una certa immagine con determinate caratteristiche.

 

Ha dei Maestri di riferimento a cui guarda, a cui si sente affine?

Ahia, domanda impegnativa.

Io quotidianamente guardo tantissima fotografia sotto forma di libri ed esposizioni quando posso, altrimenti attraverso il web. Penso che sia fondamentale per un fotografo riempirsi gli occhi delle meraviglie e delle suggestioni che ci regalano gli altri. 

Per età e formazione da storico dell’arte, pesco il mio immaginario nella pittura ma anche nei grandi fotografi “classici”.

Se devo fare dei nomi “di pancia” – direi Jodice, Sieff, i grandi fotografi della Magnum Photos – mi sono nel cuore Raghu Rai, Burri, List, Webb, Maioli, Scianna, ed ancora Newman, De Biasi, Berengo Gardin, Avedon, Roiter, Gilardi, Giacomelli, l’amico Pepi Merisio, Mulas, Basilico, Harari, Leibovitz e Cerati… 

Ma seguo anche molti fotografi più “recenti”: Monika Bulaj, che considero davvero mia maestra, Francesco Faraci, Lorenzo Zoppolato, Raul Iacometti, Fausto Podavini, Valerio Bispuri, Francesco Comello, Giorgio Galimberti, etc etc. Sembrano tanti ma per ogni nome ne potrei citare almeno altri trenta.

Quando vedo le loro immagini è come incontrare un amico che conosco da tempo e che tengo racchiuso in un cassetto dell’anima.

Qualche rara volta rivedo, o credo di vedere, qualche frammento di questi fotografi anche nelle mie immagini ma non penso di poter aspirare alle loro altezze.

 

Nei suoi scatti il velo di Maya è caduto.

Pietà, dolore, dignità e potenza emergono e rapiscono gli occhi dell’osservatore in tanti suoi progetti, come nelle foto di  “Guida e basta” e “Filomena”, donna sopravvissuta al marito violento, che con il viso ricoperto dalle cicatrici provocate dall’acido posa sicura e maestosa di fianco al suo stesso riflesso che raddoppia i decori della sua veste e il suo volto, come un caledoscopio.

Morte e vita, vita e rinascita dopo la morte sfiorata.

Sono fotografie che si rifanno pienamente all’immagine del Sacro, alla storia dell’arte ma anche al tema  della “maschera”, tanto caro ad artisti del primo e dell’ultimo Novecento come Pirandello e Alighiero Boetti.

Ad esempio in “The Mask and the Artist” i soggetti si coprono il viso con le mani per poi svelarsi successivamente, liberando il volto.

Gli scatti fondono le due scene generando dei ritratti in cui non possiamo sapere quale sia la faccia vera, se quella con le mani a coprirla o quella senza.

Quanto è importante per Lei l’empatia per la riuscita di un progetto fotografico che richiede un connessione con il soggetto ritratto e soprattutto come riesce a gestirla senza farsi travolgere?

Una domanda impegnativa e profonda. La ringrazio per questa sua analisi così lusinghiera. Empatia… Se penso che da giovane pensavo che non sarei mai riuscito a fare un ritratto ad un soggetto umano mi viene da sorridere perché sono terribilmente timido ed introverso: per questo fotografavo opere d’arte ed oggetti inanimati. Poi ho cominciato a lavorare nel mondo dello spettacolo e tutto è cambiato.

Ora dico sempre che sono fortunato e ricco perché faccio un lavoro che mi concede di entrare nelle storie delle persone, talvolta di diventarne parte.
Ritrarre per me significa sempre avvicinarsi, palesarsi, cercare un contatto, una comunicazione con la possibilità di essere accettati o rifiutati. E’ sempre un incontro e perché un incontro sia vero bisogna sempre giocare a carte scoperte, essere vicini, stare dentro alle storie rimanendo sempre se’ stessi ma aperti ad accogliere quello che gli altri ti possono donare. Per un approccio come il mio l’empatia è necessaria come l’aria: mi lascio trasportare e solo un po’ di mestiere mi permette di gestirla.

Tutti mi lasciano qualcosa, davvero, e devo dare qualcosa in cambio.

Talvolta è semplice, leggero, fresco come nel recente caso di Vita, una bimba di quattro anni, con cui ci siamo divertiti come matti per fare le foto per un advertising.

Talvolta vieni catapultato in un turbine di emozioni e sentimenti a cui devi giocoforza attingere per dare il meglio di te come fotografo. E’ questo il caso dei matrimoni: è un genere fotografico che in troppi ritengono l’entry level del lavoro del fotografo, in realtà per farlo al meglio devi immergerti totalmente nella storia degli sposi. Ecco perché ogni volta ci commuoviamo e spesso ci ritroviamo a fotografare in lacrime per l’emozione della giornata. E’ il motivo per cui con i miei collaboratori abbiamo deciso di farne pochi e selezionati all’anno, per non rischiare che il “lavoro” prenda il sopravvento sulla storia.

Altre volte rischi di essere trascinato dentro a storie fatte di grandi fatiche ed enormi dolori. Quando nel 2013 partecipai ad un progetto sugli incidenti stradali dopo sei mesi ero sull’orlo della depressione dopo essere venuto a contatto con quei vissuti. Lei ha citato Filomena. Le confesso che per riuscire a fotografare Filomena sono andato da una psicologa perché mi metteva in crisi il mio ruolo di fotografo in una storia così enormemente grande. Poi, una volta incontrata, tutto è stato in realtà facile e naturale.

 

Progetti futuri?

Tanti. Appena prima del lockdown avevamo posto le basi per un progetto che è stato giocoforza interrotto. Ma quando ci saranno le condizioni verrò a raccontarglielo ed a stamparlo.

 

Biografia

Mario Rota

Fotografo e docente

www.mariorota.com

@ilfotografodibergamoalta

@mariorota

Mario Rota

Classe 1967 dopo il liceo classico si laurea in lettere con una tesi in archeologia e storia dell’arte.
Dopo anni passati tra spedizioni di ricerca, scavi archeologici ed insegnamento approda alla fotografia di still life. I soggetti di allora erano beni culturali.

Dopo la collaborazione con studi di comunicazione e grafica dalla fine degli anni 90 si dedica in toto alla fotografia.

Il suo motto: “per me fotografare ha a che vedere con la felicità, è per questo che non faccio il fotografo, sono un fotografo”. Da alcuni anni insegna fotografia in una scuola superiore.